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Migrazioni: facciamo una pausa di riflessione

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Dal 1999 al 2001 ho passato sei mesi in Honduras: il Paese dal quale proviene la maggioranza delle persone che si stanno muovendo in migliaia nella cosidetta carovana umana tra il Messico e la frontiera degli Stati Uniti. Durante la mia permanenza in questo paese, ho incontrato una ragazzina che con il suo fratellino era appena tornata dalla Città di Guatemala. Erano le vittime del “coyote” che era stato pagato dalla loro madre, residente negli Stati Uniti, e li aveva abbandonati. L’uomo avrebbe dovuto portarli dalla mamma, li aveva però lasciati in Guatemala con l’improbabile giustificazione che era stato derubato. Fortunatamente, i bambini riuscirono a tornare sani e salvi a Tocoa, in Honduras.

Più della metà dei migranti della carovana sono donne e giovani; la marcia attraverso il continente è considerata più sicura che affidarsi a un trafficante di esseri umani. Dati dalla Casa del Migrante, basato in Tijuana, Messico, riferiscono che 1,822 uomini, 1,565 donne, 770 ragazzi e 952 ragazze camminavano verso nord il 20 ottobre scorso. Quattro giorni dopo, il governo honduregno ha contestato queste cifre sostenendo che il numero di migranti era di oltre mille persone in meno. Alcuni membri della carovana sono tornati nel loro Paese e altri si sono fermati in Messico, ma una seconda carovana è partita dall’Honduras e tre altre, a quanto pare, hanno iniziato il tragitto dal El Salvador.

Il 26 ottobre 2018, il Presidente del Messico Enrique Pena Nieto, attraverso il programma “Estas en tu casa” [Sei a casa], ha offerto come primo passo dei permessi temporanei ai migranti disposti a rimanere negli stati meridionali di Chiapas o Oaxaca.

Mentre poco dopo, il Presidente americano Donald Trump ha annunciato che avrebbe mandato tra i 5.000 e i 15.000 soldati alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti affermando: “Nessuno entrerà.”

V.P., un pompiere volontario di Tegucigalpa, Honduras, ha detto che le persone che hanno intrapreso la monumentale impresa di marciare per migliaia di chilometri non lo fanno per ragioni politiche: “Fatti delle domande. Niente soldi. Niente terra. Niente speranza. Niente fiducia nel sistema … Hai qualcosa da perdere? Solo la tua vita difficile. Non è una questione politica. Questo è un problema di dignità.”

La situazione e gli approcci contrastanti di due capi di stato, meritano una seria riflessione. Il Messico si è dichiarato disposto a ospitare i migranti mentre gli Stati Uniti hanno scelto di mandare le forze armate per bloccarli. Le loro posizioni riflettono uno schema che si sta manifestando attraverso il globo in relazione alla questione della migrazione.

Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’85 per cento dei profughi nel mondo sono ospitati dal Sud globale, tuttavia il Nord globale mostra una forte resistenza nell’accomodare il rimanente 15 per cento.

Recenti risultati elettorali dell’UE sottolineano questo fatto. Le elezioni italiane nel marzo 2018 hanno dato vita a un governo di coalizione formato dal Movimento Cinque Stelle e la Lega che basa la propria piattaforma sulla retorica anti-immigrante. Lo scorso giugno, il capo della Lega e Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha negato l’accesso ai porti italiani alla nave Aquarius, la quale portava 629 migranti salvati nel Mare Mediterraneo, forzando i migranti ad affrontare altre 700 miglia nautiche di viaggio per raggiungere la Spagna. Salvini ha dichiarato che la chiusura dei porti è stata motivata dalla mancanza di sostegno dell’Europa sulla questione della migrazione. A settembre sei pescatori tunisini sono stati arrestati per aver trainato un’imbarcazione danneggiata con 14 migranti a bordo che sono poi stati trattenuti in una prigione italiana per 20 giorni.

Sulla sponda sud del Mediterraneo, il Libano, con una popolazione di soli 6 milioni di abitanti, ha accolto 1,5 milioni di rifugiati. Secondo l’ente di Protezione civile e operazioni di aiuti umanitari dell’UE, questa piccola nazione, è lo stato con la concentrazione di profughi pro capite più alta del mondo. Nel 2017 l’Europa ha invece accettato poco meno di 650.000 richiedenti d’asilo all’interno del suo territorio 440 volte più grande del Libano e con una popolazione di oltre 700 milioni.

Anche la Svezia, una nazione riconosciuta per la sua società aperta e tollerante, ha reso le sue regole sull’immigrazione più rigide e ha visto vincere il partito di destra e anti-immigrazione Sweden Democrats con il 18 per cento dei voti nelle elezioni di settembre 2018.

Il Canada, una nazione di 36 milioni di abitanti dove la narrativa istituzionale del Primo Ministro Justin Trudeau è positiva verso l’immigrazione, si classifica al nono posto al mondo nell’accogliere profughi con 47.800 richiedenti d’asilo.

Quello stesso anno, gli Stati Uniti hanno accettato l’esiguo numero di 33.000 profughi pur avendo una popolazione quasi dieci volte più grande di quella canadese. Ma la retorica anti-immigrazione del Presidente Trump sta avendo un effetto in Canada.

Dal 2017, migliaia di migranti sono entrati in Canada a piedi dagli Stati Uniti a causa della politica più inflessibile sull’immigrazione del Presidente Trump. Secondo un sondaggio della Angus Reid rilasciato nell’agosto 2018, il 67 per cento dei canadesi percepisce le entrate irregolari dalla frontiera statunitense come una “crisi nazionale”: ciò nonostante la narrativa positiva del governo e dei dati che affermano il contrario.

In effetti, i dati reali non confermano le paventate “invasioni” nel Nord globale, eppure i partiti politici anti-immigrazione e populisti sono in aumento mentre il senso di empatia per le difficoltà dei migranti, dei rifugiati che fuggono dalle guerre o altri disastri, o per coloro che cercano delle opportunità economiche e un futuro positivo, sta scomparendo. Questo è ancora più sconvolgente se si considera che sta accadendo in una parte del mondo che possiede la capacità e le risorse per fare molto di più eticamente ed economicamente.

Quindi, mentre il nord-ovest dell’Uganda sta accogliendo 400.000 profughi sistemandoli in piccole comunità fornendoli di piccoli appezzamenti di terreno per costruire case e coltivare il cibo, l’Australia ospita i richiedenti asilo sulla piccola nazione isolana di Nauru dove l’incertezza e le condizioni alimentano tendenze suicide anche in bambini tra otto e dieci anni.

Sono sicura che si possono trovare numerose ragioni complesse e sofisticate per giustificare le circostanze attuali, ma infine per quanto concerne i flussi migratori rimane il fatto che il Sud globale sta facendo molto più della sua parte, e questo è raramente riconosciuto dal Nord globale.

La bozza del “Global Compact on Refugees” delle Nazioni Unite è stata finalizzata l’1 novembre, 2018.  Il documento ha quattro obiettivi chiave: alleviare la pressione ai Paesi che accolgono, aumentare l’autonomia, espandere l’accesso a Paesi terzi e sostenere le condizioni nei Paesi di origine per permettere ai rifugiati di ritornare in modo sicuro e con dignità. Entro la fine dell’anno, i 193 membri dell’ONU dovranno votare il documento finale.

Un progetto globale del genere ha senso perché la migrazione, come il cambiamento climatico, è un argomento globale che ci collega e ci rende interdipendenti. Le ripercussioni di entrambi le questioni possono toccare qualunque nazione in qualunque momento rendendo cittadini inizialmente immuni dagli effetti della migrazione, o anche il cambiamento climatico, le nuove vittime.

Ma ciò di cui la comunità globale non ha bisogno è un altro documento pieno di affermazioni ben considerate che però non portano ad azioni concrete. Nessuna nazione può risolvere la crisi dei profughi, o la sfida migratoria: né l’Italia né la Grecia che stanno sopportando il peso più faticoso in Europa; né il Libano, l’Uganda o il Messico. Trovare un equilibrio tra le priorità globali e gli interessi nazionali del Nord e del Sud globale è una sfida, ma solo con la determinazione a un livello internazionale e la consapevolezza che si tratta di una questione di diritti umani universali che va risolta globalmente, si potrà sperare di sconfiggere questa tragedia umana.

È un dato di fatto che gli esseri umani hanno vagato per la terra da millenni. La ricerca del benessere, della libertà e della sicurezza per sé, i propri figli e la propria famiglia non è solo un’aspirazione, è un diritto inalienabile di ogni essere umano.

Chiunque di noi potrebbe essere il prossimo profugo: a causa della casualità del luogo di nascita, di disastri naturali e umani su cui non abbiamo il controllo, della chiusura mentale, della paura e dell’ignoranza. Chiunque di noi potrebbe essere il prossimo a fare parte di una carovana umana o di un pericoloso viaggio in barca. Rimanere indifferenti vuol dire rinunciare alla nostra responsabilità di cittadini globali e vuol dire disconoscere la vera essenza della nostra indole.

Lisa Ariemma è una giornalista, educatrice e ricercatrice. Ha fondato gli “Amici dell’Honduras” dopo che l’uragano Mitch ha devastato quel Paese nel 1998 e ha coordinato il “Progetto nuovo orizzonti” a Tocoa, in Honduras. Oggi è co-fondatrice e membro dell’associazione Maydan che lavora verso un Manifesto per la cittadinanza mediterranea. Vive tra Meana di Susa, Italia e Toronto, Canada ma si considera cittadina del mondo. 

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